25 aprile: dalla nascita della democrazia nel 1945, alla difesa della democrazia nel 2022

Sono trascorsi 77 anni da quel 25 aprile che segnò la nascita della democrazia. Dopo la devastazione della guerra, dopo l’oppressione, l’Italia poteva guardare al futuro con nuova, ritrovata speranza. Da allora, ogni anno, festeggiamo il 25 aprile come data simbolo di rinascita e ricordiamo i valori fondanti la vita democratica nel nostro paese: la libertà, la giustizia, la pace. Per 77 anni abbiamo vissuto in pace, abbiamo dato per scontata la pace, abbiamo ritenuto acquisiti per sempre quei valori che ci identificano come Paese democratico; valori sui quali insieme agli altri Paesi europei ci siamo impegnati a costruire un’Europa fondata sul diritto di autodeterminazione dei popoli, coniugato col rispetto dell’identità di ognuno, cementato dal valore condiviso della pace. Non abbiamo mai pensato che questi valori, divenuti così intimi e profondi in noi, potessero essere messi in discussione, peggio ancora attaccati, da chi concepisce l’esistenza in termini di rapporti di forza, di conquista ed espansione, di supremazia.
Appartenenza, responsabilità, rispetto e condivisione sono principi non negoziabili, come la vita, prima di tutto, come il coraggio delle scelte e delle azioni. Increduli e impreparati ci siamo trovati di fronte all’atrocità della guerra, che come sempre spazza via ogni umanità, abbruttisce chiunque, cancella ogni progresso facendoci regredire alla brutalità di un mondo incivile. Abbiamo scoperto che gli ideali democratici che credevamo acquisiti e certi vanno invece difesi, sostenuti, conquistati continuamente, condivisi. Mai come quest’anno il 25 aprile è testimonianza sincera, reale, ed affermazione di questo impegno, della bontà del pensiero e del vivere democratico, conquistato col sangue e col sacrificio di molti nel 1945 ed ora consegnato nelle nostre mani. Mai come quest’anno la qualità del nostro futuro dipende dalle nostre azioni, dalle nostre scelte, dal nostro non voltare lo sguardo altrove, e quindi dall’impegno civile che ci ha sempre contraddistinto.
Viva il 25 aprile, viva la democrazia!

Dal no al sì

Sì, il lessico è cambiato. Termini come antinebbia (i fari), antiuomo (le mine), antipatiche (le cugine) sono spariti e il prefisso anti- si è intimamente legato a virus e ha iniziato a circolare in tutti i social, in modo, appunto, virale. Il verbo tamponare,che portava dritti dal carrozziere o bloccava il sanguinamento di una ferita, oggi invia al drive through, dove una task force di eroi, in prima linea, in trincea, in questa guerra che ci ha costretti a due lockdown,ci spiegherà che negativo, a volte, è meglio di positivo. Anglicismi, nuove parole, significati che cambiano. La casalinga di Voghera, abbandonato il lievito madre, si è avventurata in conversazioni telematiche, pronunciando termini come Zoom o Whatsapp, con disinvoltura. Studenti abituati a lavorare su libri e quaderni si sono visti catapultati nella DaD, acronimo di Didattica a Distanza, e hanno scoperto che improvvisamente quei cellulari e quei tablet da cui genitori e insegnati si affannavano a tenerli lontani sono diventati indispensabile materiale scolastico. Anteporre il no a ciò che non si condivide è diventato di gran moda, generando termini che indicano una scelta ma che connotano anche una negatività a prescindere, una sfiducia generale, una indisponibilità di fondo, un’attitudine a vedere trame e complotti dietro ogni angolo. Quel che occorre ora, invece, è cambiare paradigma e illuminare le frasi con un sì. Sì perché si vuole partecipare, perché ci si vuole impegnare in prima persona, perché ci si vuole fidare, perché si riconosce la competenza. Sì, perché il futuro è fatto di partecipazione, di collaborazione, di condivisione, di senso di responsabilità verso la collettività. Sì, perché questa parentesi della nostra vita prima o poi dovremo chiuderla, guardando avanti, disponibili, solidi, determinati, Sì, perché essere positivi possa tornare a essere meglio.

Fra il dire e il fare

Forse tra il dire e il fare c’è di mezzo un cambiamento. Un cambiamento di mentalità. Profondo. Proprio come il mare che tradizionalmente starebbe lì in mezzo. Un cambiamento che coinvolge totalmente perché può valere per le piccole cose come per le grandi idee.  Un cambiamento che impegna in prima persona. Non è più sufficiente avere una buona idea e promuoverla, ma occorre metterla in pratica, renderla reale, costruirla fisicamente. Un passaggio dall’astratto al concreto. Certo, può spaventare, ma risulta essenziale per non perdersi in bei discorsi, vaghe elucubrazioni, inutili proclami. Se dico, faccio. E allora ecco che l’idea del bookcrossing, comune a molti, si concretizza nella costruzione di sette casette dei libri. In legno, vere, pronte per essere installate. E questo piccolo cambiamento di mentalità forse produrrà una ricaduta sociale: più libri che circolano, più gente che legge. Una piccola biblioteca diffusa. Un segno preciso sul territorio. Se dico, faccio. E c’è chi si preoccupa delle piste ciclabili. Dotandole non dell’idea astratta dei servizi utili al cicloturista, ma delle colonnine per la manutenzione e la riparazione dei mezzi. E poi il verde che ci circonda, che volontari organizzati e attivi si impegnano a ripulire in giornate dedicate e promosse sui social, con tanto di resoconto fotografico finale. Se dico faccio. Si tratta di rimboccarsi le maniche, non di raccontarlo. Insomma, qualcuno prova a parlare di meno e a fare di più. Non è la soluzione per tutto, non è detto che si debba fare sempre e comunque così, ma è un buon modo per approcciare i problemi cercandone la soluzione e decidendo di intervenire in prima persona invece di delegare ad altri. Prendersi la responsabilità. Non è facile. Ma potrebbe essere un buon modo per avviare percorsi virtuosi, fatti di piccoli passi concreti, anche per argomenti complessi. E poi, non è detto che quel mare lì, quello che tradizionalmente sta nel mezzo, sia più profondo del cambiamento.

Occorre un “patto sociale” per costruire il futuro

In piena pandemia tutti ci siamo chiesti come ne saremmo usciti, e molti affermavano che ne saremmo usciti migliori. Oggi che incominciamo a vedere la luce in fondo al tunnel, passata la grande paura, rinfrancati da strumenti sanitari di protezione (il vaccino, ma speriamo anche altro, come nuove terapie), il rischio è di restare quelli che siamo sempre stati: cioè bravi nell’emergenza ma deficitari nell’impegno a lunga durata, nell’assunzione di responsabilità anche individuali (vedi no vax), nella coscienza civica e sociale.
I segnali ci sono, purtroppo, tanto che lo stesso Presidente del Consiglio Mario Draghi, parlando all’assemblea generale di Confindustria della realizzazione del Pnrr, ha affermato la necessità di un “patto economico, produttivo e sociale” a beneficio delle prossime generazioni, per “assicurarsi che il denaro per gli investimenti sia speso bene, come strumento di una prospettiva di sviluppo”. In tal senso richiamando tutti – mondo produttivo, politica e forze sociali – a non lasciarsi andare a interessi di parte o di categoria e a lavorare per il bene comune. Non ha specificato cosa debba contenere questo “patto sociale”, che noi crediamo debba essere strumento di progettazione politica e di buona amministrazione in tutto il Paese. Noi pensiamo che questo patto sociale debba avere come priorità il lavoro, quel lavoro che è sparito dai radar del dibattito politico, e ahimé sparito anche dalle prospettive personali di tanti cittadini, soprattutto giovani. Siamo convinti che lo strumento principale di rinascita personale e collettiva sia il lavoro, inteso non solo come mezzo di sostentamento ma anche come strumento di autorealizzazione, di espressione di abilità e competenze. Il lavoro giustamente retribuito, il lavoro sicuro (non si può morire sul lavoro!), il lavoro che può veramente contrastare la povertà. Crediamo sia necessario recuperare il “valore” del lavoro, per tornare a credere in noi stessi e per ridare fiducia al Paese intero.

La salute prima di tutto

Parole sagge, essenziali perché si riferiscono a un diritto fondamentale: la salute, condizione umana imprescindibile di un Paese democratico e civile.
La tutela e la salvaguardia della salute – non solo come bene individuale ma come valore e bene comune – sono state messe a dura prova durante la pandemia. Il Covid ha portato a galla le falle del sistema sanitario, specialmente in Regione Lombardia. La più grande di queste falle è risultata essere l’assistenza medico-sanitaria pubblica territoriale, di fatto distrutta da anni di politica sanitaria che ha privilegiato l’ospedalizzazione, quindi le strutture ospedaliere, in particolare private, che tuttavia non hanno saputo dare nel frangente della pandemia la risposta necessaria.
Dalla salute quindi si deve ripartire. Il piano sanitario per spendere i sette miliardi del Recovery Found punta proprio a questo: costruire la medicina di prossimità, con la realizzazione di una rete socio-sanitaria di comunità dalla parte del cittadino. Il nodo cruciale del nuovo assetto saranno le “Case della Comunità”, che riuniranno in una sola struttura di zona medici di famiglia, specialisti, infermieri, assistenti sociali, macchinari e strumenti per la diagnostica e per cure e prestazioni essenziali, lasciando alle grandi strutture ospedaliere l’alta specializzazione.
Un tale assetto non può quindi prescindere da una rete territoriale dove i Comuni hanno non solo voce in capitolo ma anche funzione propulsiva. Riteniamo che l’integrazione socio-sanitaria sia un obiettivo strategico di oggi e degli anni a venire e che in tal senso i Comuni debbano mettere in campo la loro conoscenza del territorio, le competenze sociali derivanti dalla funzione socio-assistenziale che compete loro, gli strumenti di servizio sanitario al cittadino e di prevenzione quali le Farmacie pubbliche, le RSA, le reti di solidarietà locale, le collaborazioni coi medici di famiglia, per costruire insieme un “sistema salute” veramente degno di un grande Paese come l’Italia.

Ricostruire il presente

La pandemia ha portato, come effetto globale, l’allontanamento dall’altro, il ripensamento dei contatti interpersonali e, con un orribile termine entrato di forza nel lessico quotidiano, il distanziamento sociale. Abbiamo dato un senso nuovo ai termini. Negativo e positivo hanno praticamente invertito il significato relativo e confuso il significato assoluto. La distanza è diventata una priorità organizzativa. La relazione con pochi un vanto. La chiusura una modalità di vita. Alla fine abbiamo sostituito la “bella presenza” con un’ottima assenza. Ma la ricerca della solitudine non è stata una scelta ascetica, meditativa, intima, è stata una difesa della vita, quella biologica non quella di relazione, una fuga pavida, un innaturale negarsi. Più che un ritiro, un abbandono. Abbiamo abbandonato il territorio, i luoghi, le funzioni. Abbiamo interposto mediatori di immagini e suoni tra noi e gli altri. Abbiamo accettato nuove liturgie scandite da modalità di gestione a distanza, videochiamate, media, social. Abbiamo trovato, con la distanza, un nuovo coraggio, una determinazione a volte al confine con l’aggressività.
E ora? Ora dobbiamo uscire, abbandonare le nostre zone di tranquillità e tornare all’attività sociale. Con qualche paura in più, con qualche disponibilità in meno. Dobbiamo sostituire il personale con il pubblico. Ripartire dal volontariato, tornando a lavorare nelle associazioni, in ambito culturale, sportivo e ricreativo. Consolidare le basi, tessere le reti di relazione, ricostruire con nuova consapevolezza, una vita pubblica. Occorre tornare a vivere insieme per ridare valore al rapporto con gli altri e ai legami di solidarietà. Un passo alla volta, perché prima occorre ricostruire un presente, se vogliamo pensare al futuro.

Ricominciare a vivere, fra sfida e consapevolezza

C’è una parola che ricorre continuamente in questo periodo: sfida. Sfida contro il tempo per fermare la corsa del virus attraverso la vaccinazione di massa; sfida per riprendere in mano la nostra vita; sfida per combattere la povertà e la diseguaglianza; sfida per superare l’arretratezza tecnologica, resa più evidente dall’emergenza Covid; sfida per salvare il Pianeta, quasi che il Covid abbia risvegliato la nostra coscienza ecologica; sfida per ricominciare a credere in noi nonostante tutto. La parola sfida sottende l’esistenza di un confronto in cui una parte è avversa: c’è qualcosa o qualcuno da combattere, e questa necessità ci dà una carica più che mai utile in questo contesto. Utile, ma non sufficiente per garantire buon esito all’impegno civile, che oggi richiede di moltiplicare i nostri sforzi, nei ruoli politico-amministrativi e nel volontariato vissuto accanto ai tanti cittadini attivi coi quali condividiamo l’impegno di una comunità che non sta a guardare ma che si rimbocca le maniche. Lo sforzo che dobbiamo mettere in campo è grande, e nell’affrontarlo dobbiamo prima di tutto essere consapevoli, fuori da ogni illusione, che occorrerà tempo per ricucire gli strappi sociali, economici, culturali, che hanno sfilacciato le nostre vite. Non è pessimismo pensare che l’impegno richiesto a noi tutti sarà duraturo: è realismo e responsabilità. E non è lentezza affrontare politicamente i problemi e le situazioni con tempestività, ma anche con lungimiranza e quindi con un pensiero al futuro.
Altra consapevolezza indispensabile è la necessità di agire politicamente fuori dalla nostra cultura faziosa, di parte, di interessi. La sfida della ricostruzione delle nostre vite è una sfida comune, non è duello fra parti avverse. Come ha ben detto il nostro Presidente Sergio Mattarella, «il futuro è per tutti, o è per nessuno». Se non siamo consapevoli di questo destino comune usciremo a pezzi dalla tragedia che ci ha colpito e difficilmente riusciremo a costruire una società migliore e più giusta, a cui tutti noi aspiriamo.

Uno sguardo attento agli altri

Tutto quello che si può fare per aiutare e tutelare le associazioni e il volontariato, in questo momento storico è un dovere. È purtroppo evidente che già da tempo la disponibilità di volontari è drasticamente diminuita; ora, quello che sta diminuendo è il numero delle associazioni sul territorio. Ma la cultura del volontariato e dell’associazionismo ha un valore civile che deve essere protetto e promosso.
Per le associazioni sportive e culturali, ad esempio, la contrazione o la totale mancanza di attività ha significato non poter introitare le quote sociali, perdere l’interesse dei soci per l’oggetto sociale e quindi avviarsi verso la chiusura. Molte di queste associazioni gestiscono o utilizzano, in virtù di convenzioni, spazi e strutture comunali, assicurandone l’apertura con un’offerta che ha ampie ricadute sociali, che tesse una rete di relazioni, che ha un impatto positivo su tutto ciò che ruota loro intorno. Il danno derivante dalla chiusura delle associazioni va oltre, quindi, il servizio specifico che viene a mancare, ma si spinge verso la riduzione di funzioni e servizi, il degrado di strutture e spazi, il mancato presidio del territorio. 
Anche le associazioni di tipo sociale stanno vivendo un momento di crisi: tradizionalmente, per molti dei servizi che offrono fanno affidamento su persone della terza età, che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie risorse a favore della comunità. Una disponibilità che a causa del Covid si è drasticamente ridotta.
Se le associazioni, in particolare quelle sociali, chiudono, se il volontariato, che talvolta sostituisce l’impegno del settore pubblico, si contrae, salta tutto un sistema di aiuto solidale, di welfare di comunità.  Ed è proprio questo sguardo verso un welfare di comunità, che bisognerà rendere patrimonio di tutti. Occorrerà riattivare il volontariato, ripensarlo, proporre una pluralità di progetti coinvolgendo e mobilitando le risorse delle comunità e agendo sulle risorse delle persone. Un nuovo modo di vedere il volontariato, un diverso sguardo verso l’associazionismo che ha alla base la ferma volontà di far vivere le associazioni, di sostenerle, e successivamente di metterle in rete.

Nuova emergenza: noi ci siamo!

Ed eccoci di nuovo in emergenza sanitaria. Il virus, che pensavamo di aver domato e che per qualche mese ci aveva ingannati facendoci sentire solo un ronzio sommesso, ora ha alzato la voce, e la voce è diventata un ruggito. Ora tutti siamo chiamati a un comportamento responsabile, per salvaguardare noi stessi e gli altri. Ma non siamo soli. C’è una comunità che, proprio come era avvenuto in primavera, si organizza per far fronte in maniera efficace alla nuova minaccia. E noi di Unione Democratica ci siamo, come ci siamo sempre stati per i cittadini di Lainate, con senso civico e voglia di fare tante cose concrete e indispensabili per la vita della città.
Ci siamo e ci siamo stati nella cura e nell’attenzione verso le persone più fragili, in particolare i nostri anziani, consapevoli che sono loro, i più duramente colpiti dal coronavirus, ad aver bisogno di maggiori attenzioni e di una “linea di protezione” più solida. Con il volontariato, a partire da quello degli “Osservatori del verde” che, nel corso dell’anno, si sono dati da fare per ripulire e rendere pienamente godibili tante aree verdi.  Con gli incontri organizzati nell’OP cafè, uno spazio in cui conoscersi, socializzare, condividere, superare le barriere che spesso anche nella nostra comunità dividono le persone. Con uno sguardo nuovo verso lo sport, che parte da un diverso utilizzo, in alcuni momenti e da parte dei “non atleti”, delle strutture esistenti fino ad arrivare alla possibile apertura di una base per kayak sul Villoresi. Ci siamo e ci saremo con le idee e con la voglia di fare. In campo per giocare, non in tribuna a guardare. E in campo ognuno deve fare la sua parte. Ma non basta, occorre rimboccarsi le maniche e andare in sostegno: non semplicemente aiutare, ma condividere un problema per arrivare alla soluzione. Insieme.

Parola d’ordine: cambiamento

Problema oppure opportunità? Quello che è certo è che ora, passato il periodo più “caldo” della pandemia di Covid-19, in cui tutti noi, relegati in casa per la quarantena, siamo stati costretti a un profondo ripensamento del nostro modello di vita, siamo di fronte a una nuova grande sfida: quella di gestire il cambiamento. Un cambiamento che dobbiamo imparare ad affrontare in modo nuovo. Non si tratta infatti più, come forse facevamo in passato, di reagire agli stimoli esterni, a volte controvoglia e a volte con entusiasmo, cercando di ritornare rapidamente nella nostra zona di confort, nella speranza che tutto torni come prima. Questa volta occorre attenzione. Non solo: anche disponibilità. Disponibilità a metterci in gioco, ad accettare che le cose cambino, a capire le ragioni di questo cambiamento, a entrare in sintonia con chi ci è vicino e fa fatica, come noi, ad accettarlo.  Insomma, occorre che ognuno di noi guardi al futuro sostituendo la parola “problema” con “opportunità”. Dovremo essere resilienti. Nel concreto, nel quotidiano. Lo dobbiamo a noi stessi e lo dobbiamo agli altri, a cominciare dai più piccoli, a cui dobbiamo dare un luogo dove stare in modo nuovo, delle cose da fare in modo diverso, dei rapporti da sviluppare in modo più ampio ma non meno profondo. È questo il compito che ci aspetta: un grande lavoro di preparazione, la sfida di acquisire nuove competenze, di assumerci nuove responsabilità, in prima persona.
Solo in questa nuova ottica, imparando ad affrontare il cambiamento come una possibilità invece che come un problema, potremo progettare il nostro futuro, a cominciare dalle attività legate all’estate, al vivere gli spazi esterni. Un futuro in cui parole come aggregazione non facciano più paura, in cui interagire non sia sinonimo di pericolo, in cui si possa continuare a conoscersi. Non è solo il compito delle istituzioni. È un nuovo modo di guardare al futuro. Con lo sguardo ostinatamente in avanti, con tempi e modi diversi, secondo nuove regole. In sicurezza e insieme.  Perché ciascuno possa dire: quel cambiamento è qui e ora. Io ci sono.